a cura di Fabio Lamonea
“Una striscia di luce bianca. Poi un’altra ed un’altra ancora. Ricordo solo le luci al neon della corsia del pronto soccorso che si alternavano ritmicamente dinnanzi ai miei occhi fissi, persi. Sentivo che la mia vita si stava spegnendo li, su quella barella in quell’ospedale ma io non volevo mollarla e mi ci aggrappai con tutte le mie forze che avevo ancora in corpo“.
Steven in quegli interminabili momenti pensava a quello che stava perdendo; oltre ai litri di sangue da uno squarcio sulla gamba grande come una bottiglia di birra (alla fine dell’operazione ne perderà quattro di litri) temeva per la sua vita ma anche per la sua carriera tutta speciale. Si perché Steven Bradbury pattina sul ghiaccio da professionista in un luogo del mondo che più lontano dagli sport invernali non potrebbe esserci: l’Australia. Pattinava prima di quel taglio profondo che arrivò a lambire l’arteria femorale procuratogli dal pattino di un collega italiano durante una gara di coppa del mondo a Montreal.
Pattinava bene (ma non benissimo, bisogna dirlo) Steven prima di quei 111 punti sulla sua gamba aveva infatti avuto risultati buoni nello Short Track, come componente della staffetta australiana nel 1991, giovanissimo, fu infatti medaglia d’oro ai mondiali, nel 1993 bronzo, nel 1994 bronzo ai Mondiali e argento alle Olimpiadi di Lillehammer poi quello scontro in gara, la lama di quel pattino che solca la sua carriera destinandolo a 18 mesi di dolore e lotta tenace per ristabilirsi: ci riuscì pienamente Steven ma non tornò ad essere un pattinatore di primo livello.
Mordace, non si diede sportivamente per finito a soli 21 anni ed in Australia per sua fortuna i pattinatori sul ghiaccio non sono molti, riuscì quindi a mantenere il suo posto in Nazionale.
Ed arriviamo allora a Salt Lake City nel 2002 dove Steven Bradbury ha un appuntamento speciale con la storia dello sport mondiale e non solo dato che quello che successe su quella pista ghiacciata fu probabilmente unico ed irripetibile. Potrei provare a descrivere in mille modi quell’impresa folle ma la più calzante resta per me la “versione” raccontata con la consueta ironia dalla Gialappa’s Band, cliccate il link e dopo riprendete la lettura:
Probabilmente la maggior parte di voi già aveva visto o sentito di questa pazza storia di sport ma in pochi conoscevano le sfumature intense del carattere di Steven. Uno che è nato e cresciuto in un posto dove il sole ed il mare avrebbero potuto avere una naturale magica attrattiva coi suoi sport ed i divertimenti ma che ha preferito il ghiaccio, il naso gelato, gli scarponcini e le tute pesanti.
Steven che ha prestato il suo cognome per un modo di dire (“ha fatto un Bradbury” oramai lo si utilizza dinnanzi ad una missione impossibile). Steven Bradbury che ha rischiato di morire e si è ritrovato suo malgrado in paradiso sul gradino più alto del podio ad una olimpiade invernale perché i suoi avversari sono stati squalificati o sono caduti e ciononostante deve dire grazie solo a se stesso.